Gli ultimi dati ufficiali dell’Istituto Nazionale di Statistica, ISTAT appunto, evidenziano in Italia un calo della disoccupazione nel mese di marzo di circa l’1,2%. In termini assoluti i disoccupati diminuisco di ben 274.000 unità. Per alcuni, un dato questo esaltante, per altri, sintomo che vi è stato un profondo mutamento culturale, con riferimento al lavoro, da parte degli italiani a seguito dell’esperienza Covid. Eh sì, perché se analizzato questo dato, ovviamente in termini generali, esso dipende non dal fatto che sia aumentata la disoccupazione, ma perché molta gente ha “gettato la spugna”. Nel mese di marzo, sempre, poco meno di 500.000 italiani si sono ritirati dal mercato del lavoro. Tra questi sicuramente molti saranno coloro per il cui il lavoro è un valore e non una necessità. E forse, meglio così. Non è possibile sopportare ancora che molti giovani e belle menti siano a spasso, quando altrettanti sono i casi in cui lui è un libero professionista affermato e lei una statale o qualcosa di assimilabile, e che lavora per realizzarsi.
In Italia, il lavoro non può essere ancora considerato pienamente un valore o un mezzo per realizzare la persona, perché il lavoro è ancora lo strumento principe per molti per soddisfare un fondamentale bisogno, ovvero sfamare la propria famiglia!
In linea generale, il tasso di disoccupazione scende durante la crisi, contrariamente a quanto ci si aspettava. E ciò è ancora più drammatico di un aumento della disoccupazione, perché la gente è completamente sfiduciata, da un lato, e dall’altro trova “l’argomento” lavoro un terreno per cui non vale spendersi.
E se il tasso di disoccupazione sino ad oggi ci ha indicato il livello di spreco delle risorse disponibili e di livello di sofferenza della società nonché il livello delle grandi ingiustizie sociali, a partire da questa crisi appare non essere più significativo di tutto ciò.
Forse ché il lavoro non è più un prodotto sociale, e socialmente utile? Forse che la disoccupazione non è più una necessità per contenere le spinte salariali? E ciò dal momento che il Sistema Italia non ha più la possibilità di recuperare competitività tramite la svalutazione della propria moneta né tramite un grande sviluppo della Spesa Pubblica…Da qui, ci si chiede se il capitolo lavoro si stia gradualmente chiudendo con la pratica dei sussidi, forse, questi, più gestibili dal Governo Centrale, per mantenere un certo tenore di vita, quello voluto dalla classe dirigente, ovviamente.
Ed ecco che, se la crisi del 2008 portò al raddoppio della disoccupazione da 1.600.000 unità a 3.000.000, con punte di 3,6 milioni, oggi tutti questi numeri non hanno, forse, più senso, perché, come direbbe Marx, sono completamente cambiate le condizioni della produzione fino al mutamento della cultura, dove tutto ciò impone un ripensare all’economia sotto il profilo teorico, soprattutto attraverso la revisione degli antichi paradigmi.
Ignazio Del Gaudio