Il mondo della rete è sempre più una ragnatela, dove l’utente medio si ritrova a essere preda di fameliche logiche di mercato che, alla fine della fiera, portano all’unico vero motore della società del Terzo Millennio: l’economia. In questa realtà virtuale fatta di innumerevoli nodi focali e intrecci, direzionati al consumo e al ritorno pubblicitario, si vengono a creare le cosiddette “filter bubble” (o bolle filtranti) che, secondo la definizione della Treccani, rappresentano “l’ambiente virtuale che ciascun utente costruisce in Internet tramite le sue selezioni preferenziali, caratterizzato da scarsa permeabilità alla novità e alto livello di autoreferenzialità”.
In sostanza, ci si va a collocare là dove tutti la pensano come noi, per ricevere più consensi e non veder minate o minacciate le proprie convinzioni. Così facendo, accade che un qualsiasi argomento, più o meno futile, che venga trattato dagli utenti del social media di riferimento, finisce per creare dei gruppi di appartenenza contrapposti tra loro. Una sorta di nuova edizione dei Guelfi e dei Ghibellini di memoria dantesca, delle fazioni da Medio Evo, dei Montecchi e Capuleti da tragedia shakespeariana.
E in questa creazione di parti l’una contro l’altra (virtualmente) armata, accade che un’idea, se arriva dalla propria bolla di appartenenza, viene sostenuta, condivisa e difesa a spada tratta, spesso senza usare un minimo di spirito critico per vagliarla e valutarla alla luce delle proprie convinzioni. Mentre, se arriva dalla parte opposta, non è, a priori, condivisibile. A questo meccanismo, più o meno consapevole da parte dell’utente, si aggiunge il cosiddetto (e impropriamente detto) algoritmo: il social media fa comparire nella nostra bacheca virtuale soltanto quello che, in base alle nostre precedenti ricerche e scelte, ritiene essere per noi di rilievo, quindi ci mostra i link, gli stati e le foto che possono "piacerci", i contenuti ai quali metteremmo più facilmente un "mi piace". In questa caccia al like, non fa altro che escludere a priori tutto ciò che è diverso, che potremmo non approvare o che potrebbe non interessarci, limitando di fatto la nostra visione completa della realtà.
Così, all'interno di questa bolla virtuale entrano a gamba tesa, per usare una locuzione presa in prestito dal gergo calcistico, le inserzioni mirate a una determinata tipologia di potenziali acquirenti di un determinato prodotto, di un servizio o di qualunque altro contenuto. A pagamento, ovviamente. Perché, quando la giostra termina di girare, il punto di uscita si vuole che sia l’acquisto di un qualcosa che ci renda felici. La felicità diventa così un surrogato dell’appartenenza a una determinata categoria, grazie al possesso di un bene o di uno “status” che ci caratterizzi e faccia apparire migliore degli altri. Appartenere a una di queste bolle, e se ne creano a iosa, diventa quasi rassicurante, tanto da portare, spesso, all’uniformità di pensiero.
Si rischia, insomma, di perdere quel senso critico che tre secoli fa, in pieno Illuminismo, il filosofo Kant auspicava fosse il motore del pensiero umano: “Abbi il coraggio di usare la tua intelligenza”. Con il suo motto, il filosofo della “Critica del giudizio” invitava gli uomini a usare la propria ragione, a essere autonomi, e responsabili della propria libertà. Succede paradossalmente che, in un mare di sconfinate informazioni messe a nostra disposizione, si tenda a scambiare la libera circolazione di tali notizie come un progresso sociale e il loro possesso più importante della loro conoscenza.