Sono oramai molti anni che sul proscenio della politica leccese c’è l’antico, lungo, diuturno e annoso problema della mobilità urbana. Un problema che non riesce a trovare soluzioni soddisfacenti per tutti o per la maggior parte della cittadinanza. E questo perché, nella buona sostanza, il vero e sottostante contendere è di natura culturale.
Da una parte troviamo la upper class che si rifà a modelli mitteleuropei, i quali esaltano lo stile e la moda understatement, sostanziandosi questi nell’uso del bus urbano, del ricorso alla bicicletta o al motopattino, se non proprio all’abitudine di camminare a piedi per raggiungere i punti di interesse. Da qui, l’upper class ha spinto potentemente per il pullulare di piste ciclabili, bus ecologici o elettrici con corsie preferenziali, parcheggi per bicilette o motopattini a noleggio.
Dall’altra, il cittadino medio, per il quale l’automobile è un irrinunziabile status symbol, segno del riscatto sociale, il quale va messo “in piazza” necessariamente, essendo anche vettore di sociabilità e di avvio o mantenimento di un sistema relazionale, il proprio. E poi, la bicicletta convince poco, in quanto ricorda troppo il mondo contadino e il suo passato, con tutto il rispetto per il mondo contadino, che contrasta con quello cittadino. No, per il cittadino medio leccese l'uso della bicicletta è da scartare nettamente come opzione.
E così a Lecce troviamo per la strada chi ostenta la moda mitteleuropea dell’understatement, andando in bicicletta e chi invece troneggia automobili sempre più potenti, sempre più “large”, sempre più “impressionanti per aspetto aggressivo”.
Da qui, il corto circuito in cui l’Amministrazione, da venticinque anni, sposando chi non ha bisogno di ostentare le grandi automobili, va riempiendo la città di piste ciclabili e cordoni nonché una segnaletica e un’attrezzatura stradale oltre misura, ignorando che disciplinando in maniera esasperata un fenomeno si hanno gli effetti contrari e che ogni tentativo di replicare le città del Nord Europa è vano, come è risaputo ampiamente: la Realtà non è esportabile e i modelli sociali valgono solo per chi li crea. D’altro canto disciplinare e razionalizzare l’incedere cittadino va bene, ma non bisogna mai esagerare, perché il cittadino comune rimane un essere umano, ed in quanto tale è intelligente e, allo stesso tempo, traboccante di istinti…
E così, in buona sostanza la mobilità a Lecce, quando dovrebbe funzionare, ovvero nelle ore di punta, non funziona: ingorghi, colonne di auto interminabili, dove spesso i clacson suonano tutti assieme e qualche volta c’è anche chi “urla” dal finestrino. Insomma, nelle ore di punta Lecce, da ridente cittadina turistica, dall’aria frizzantina e rilassante, diventa un vero e proprio “inferno di latta”.
Un inferno voluto dall’upper class che non comprende che “non tutti possono andare in biciletta” come lei e come piace a lei, e che bisogna trovare un modello di mobilità tutto leccese, tenendo presente le relative specificità storiche e sociali. Troppo facile “copiare” …non si governa copiando: bisogna necessariamente essere in termini effettivi i primi della classe, ovvero dei “fuoriclasse”.