Anglicismi o pigrizia linguistica? Cosa succede alla lingua italiana? - di Matteo Gentile

Anglicismi o pigrizia linguistica? Cosa succede alla lingua italiana? - di Matteo Gentile

           Potrebbe sembrare una domanda retorica o un argomento di secondaria importanza, certamente non è una questione politica ma linguistica e, in un certo senso, anche sociale: parliamo dell’utilizzo a piene mani degli anglicismi nel linguaggio parlato e, soprattutto, scritto. Certo, ci sono situazioni in cui l’uso di un termine inglese è ormai entrato nel linguaggio comune, non perché in italiano non ci sia il corrispondente termine, ma perché la convenzione e l’evoluzione del costume ci porta in quella direzione. Si pensi a termini come “film”, che tradotto sarebbe “pellicola” ma che può essere vista come una sineddoche, una parte per il tutto, in quanto non identifica soltanto il materiale su cui sono stampati i fotogrammi che scorrono per riprodurre le immagini in movimento, ma tutto l’insieme che comprende la trama, gli attori, il regista, la colonna sonora e tutto ciò che a esso afferisce.  Tra l’altro, nel cinema moderno, si dovrebbe parlare di supporto digitale, e qui avremmo un ulteriore dilemma: hard disk o disco rigido?

         Spesso si porta come esempio la lingua francese, dove i termini del mondo informatico sono ancora oggi strettamente in madre lingua: si dice calculateur e non computer, souris e non mouse, e così via. Ma al di là di queste considerazioni, che potrebbero apparire patriottiche ma non lo sono, l’osservazione sull’evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista) del linguaggio è un’altra. Scorrendo i moderni mezzi di comunicazione di massa accessibili a tutti, che ovviamente definiremo “social network” perché la traduzione letterale “rete sociale” assumerebbe un’altra valenza di carattere quasi antropologico, si nota sempre più quanto il linguaggio tenda a omologarsi, e non soltanto a favore, diciamo così, di termini anglosassoni, ma anche verso forme che non sono propriamente corrette grammaticalmente, o che si utilizzano troppo spesso per imitazione o emulazione. Sotto fotografie di tramonti mozzafiato in posti meravigliosi, anche nei profili con la cosiddetta “spunta blu” (che non è quella di whatsapp di messaggio ricevuto ma quella di Instagram che indica che quel profilo è autentico e verificato) il commento laconico diventa “good vibes”, o “my favorite place”, i quali, per carità, rendono bene l’idea, ma denotano a volte una povertà di espressione che può essere il segnale di qualcosa di più profondo: l’impoverimento emotivo.

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           A volte sembra che l’esigenza primaria del nostro interlocutore, che sia diretta, faccia a faccia, o impersonale, attraverso un “post” (un messaggio mandato a tutti, per intenderci) sia soprattutto quella di dimostrare che si appartiene alla comunità globale attraverso l’uso di quelle poche centinaia di espressioni che vengono utilizzati dai cosiddetti VIP (persone molto importanti, ma in base a quale criterio, poi?), o, ancor più moderno, “influencer”, colui o colei che è in grado di influenzare le tendenze di moda, costume, pensiero e, appunto, linguaggio. Il viaggio della vita a New York diventa una foto di Central Park o della “skyline” (perché non orizzonte?) con la didascalia – o l’hashtag (!) - “La Grande Mela”, anzi, “The Big Apple”.  Oppure la vista della Tour Eiffel si riduce al semplice commento “I love Paris”, con buona pace dei francesi che scriverebbero “J’aime Paris”, ma è un discorso che facevamo già parlando di informatica. “E' tutto un dire senza esprimere nulla, è un pensare privo di pensieri, è un essere felici non mostrando una vera felicità”, ha scritto nei giorni scorsi Fabrizio Caramagna, uno scrittore le cui frasi e pensieri vengono spesso citate dai frequentatori della rete, appunto. Qui si potrebbe aprire un ulteriore capitolo dedicato alle cosiddette “Filter bubble”, ovvero le “bolle di filtraggio” che vengono applicate in rete dagli algoritmi informatici, i quali creano una sorta di isolamento ideologico, filtrando le informazioni messe a disposizione degli utenti in base alle loro preferenze espresse in precedenza, alle ricerche fatte, persino a luoghi e ambienti frequentati, sia che vengano espressamente citati o che compaiano semplicemente nella cronologia delle geolocalizzazioni.

             Ma non sono soltanto gli algoritmi o la nuova intelligenza artificiale a creare queste “bolle” o “zone in cui ci si sente a proprio agio”. No, siamo noi stessi a cercare l’appartenenza a un gruppo in cui le nostre idee, i nostri commenti, le nostre considerazioni, vengano accettate e condivise. L’utilizzo dei cosiddetti “hashtag”, le parole chiave precedute da un simbolo di cancelletto (o diesis, perché quello è, di fatto), ci consentono di entrare nei motori di ricerca e di farci trovare anche da perfetti sconosciuti, che possono trovarsi in una qualsiasi parte del mondo, ma dai quali spesso fuggiamo, o che ignoriamo semplicemente, se per un caso fortuito li incontriamo per strada. Scrivere “chiedo per un amico”, o “le serate quelle belle”, o far precedere il nostro pensiero da “e poi ci sono…” non ci rende più importanti o ben accetti solo perché ci adeguiamo al villaggio globale del vuoto. Sempre Caramagna profetizza che nel giro di un paio di decenni spariranno le librerie, perché nessuno legge più. Eppure da recenti dati pubblicati dalle agenzie di ricerca, si apprende che l’editoria europea vale 35 miliardi di euro, e che quella italiana sia addirittura al sesto posto al mondo e al quarto in Europa. Il valore del mercato del libro in Italia nel 2022 è di 1,671 miliardi di euro, in calo rispetto ai due anni precedenti (complice anche la fine dell’emergenza sanitaria che costringeva a stare in casa più tempo, creando di fatto maggior tempo libero) ma che ha registrato comunque l’acquisto di 112.6 milioni (centododici milioni) a fronte di 58 milioni 983mila e 122 abitanti censiti. Un semplice calcolo ci direbbe che, in media, ogni italiano avrebbe acquistato due libri. Togliendo i bambini sotto i 6 anni e il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni che, secondi i dati dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), è analfabeta funzionale, il dato arriva a quattro libri acquistati da ciascun abitante.

           Eppure si dice che in Italia si scriva più di quanto non si legga. Eppure maggio è il mese dei libri, e sarà tutto un proliferare di presentazioni di libri, di autori più o meno famosi. Sarebbe allora auspicabile riprendere dai nostri dizionari quelle parole definite desuete, evitare che vadano nel dimenticatoio, ma non per un gusto dell’antico, di una nostalgia di un tempo passato a fronte di una modernità che spinge sempre più verso l’essenziale e verso il tutto e subito. Sarebbe piuttosto un ritrovare la ricchezza emotiva che può essere espressa attraverso un linguaggio più aderente alle proprie sensazioni e meno appiattito al sentir comune. “Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo” diceva Shakespeare attraverso il personaggio di Giulietta. Ma è anche vero che, citando un altro grande autore come Antoine de Saint-Exupéry, è compito nostro fare in modo la rosa non perda il suo profumo, dandole la giusta attenzione e “il giusto tempo”, quello che noi perdiamo per essa e che la rende così importante.

Matteo Gentile

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