Da lunghi mesi ormai, per proteggerci dal virus pandemico, celiamo i nostri volti dietro mascherine che rendono irriconoscibili molti tratti del viso e impediscono una chiara lettura delle emozioni che lo attraversano. L’identità della persona può essere addirittura cancellata se gli occhi sono schermati da lenti molto scure. Non poche volte ci siamo ritrovati ad osservare più attentamente e a cercare indizi nell’intera figura di qualcuno che ci salutava ma che noi stentavamo a riconoscere.
Il volto, inoltre, ha una funzione importante nella comunicazione: i movimenti, le espressioni che lo animano mentre vengono pronunciate le parole rendono più chiaro e comprensibile il senso di ciò che si sta dicendo, oltre a rivelarci caratteri distintivi della personalità. Pertanto, l’uso della mascherina ha indubbiamente posto un limite alla nostra capacità di percepire i volti, di interpretarne i segni espressivi e comunicativi, generando anche qualche disagio nelle relazioni.
Ora, se per molti adulti risulta difficile riconoscere fisionomie e stati emotivi sulle facce coperte a metà, immaginiamo quanto possa esserlo per i bambini non ancora capaci di decifrare il codice comunicativo di un viso. Uno studio condotto dall’ITS (Istituto Italiano di Tecnologia) e pubblicato su Frontiers in Psychology ha dimostrato che i bambini tra i 3 e 5 anni fanno fatica a capire le emozioni dietro le mascherine e ciò potrebbe impedire in loro il corretto sviluppo delle capacità di interazione sociale dal momento che proprio in questa età si realizzano progressi considerevoli in tal senso.
La stessa “Organizzazione Mondiale della Sanità”, prendendo in considerazione questo aspetto ha dato indicazioni precise, «scoraggiando l'esposizione all'uso di maschere quando si ha a che fare con bambini fino a cinque anni».
Alle complesse questioni sociali ed economiche e alle enormi difficoltà che stiamo vivendo e di cui per lungo tempo conserveremo il ricordo, si va così ad aggiungere anche il particolare disagio vissuto in contesti di lavoro, di studio o ricreativi, obbligati, per proteggerci, a tenere il volto in gran parte coperto, rassegnati a perdere molte di quelle informazioni e reazioni emotive espresse dai muscoli facciali e assistendo in alcuni casi ad un inevitabile impoverimento delle relazioni.
E non solo. Anche l’intensificarsi della comunicazione a distanza, con i visi riprodotti in immagini sugli schermi del computer o di altri dispositivi elettronici, ha reso meno percepibile quell’espressivo animarsi dei volti che solo la prossimità fisica consente di cogliere pienamente. È per questo che oggi avvertiamo un insistente bisogno di entrare in relazione con gli altri de visu, per diretta visione, cercando sguardi non mediati che permettano di stabilire contatti più diretti e autentici. Perché, i volti parlano, raccontano emozioni, riflettono frammenti di un vissuto impigliato in quel mistero che ogni persona è. Ma per leggerli con chiarezza e cogliervi il passaggio dell’anima, anche attraverso le maschere sociali che normalmente li ricoprono, è necessario trovarsi di fronte a visi scoperti e reali. È nel “faccia a faccia” senza parti celate, è nell’incontro diretto degli sguardi, non visualizzati dentro un monitor, che il dialogo comunicativo si può realizzare pienamente. La possibilità di stare dinanzi all’altro e guardarsi con attenzione nel tempo di uno scambio verbale, di un confronto, o di una pausa di silenzio, ci permette di percepire più facilmente qualcosa della sacralità che è impressa in ogni volto, quella “traccia dell’Infinito”, per usare un’espressione di Lévinas, che lo rende unico e inafferrabile nella molteplicità dei suoi segni espressivi.
Ma a questo desiderio urgente di volti “nudi” e vicini si affianca anche il bisogno di accoglienza e di ascolto dell’altro. La chiusura obbligata, la paura del contagio, il senso di isolamento vissuti negli ultimi due anni hanno atrofizzato in molti quel naturale atteggiamento di fiducia nel prossimo che alimenta sentimenti di solidarietà, di comprensione e ci arricchisce in umanità. Sicché, finalmente, possiamo ricominciare a percorrere la via consueta dell’incontro, riscoprendo il valore inestimabile di relazioni autentiche, scorgendo nell’altro, a partire dal volto che per primo ci attrae e ci parla, una persona degna di tutta la nostra attenzione, un “tu” che ci coinvolge e verso il quale non possiamo non sentirci responsabili.
Nota: L’opera è di Lorenzo Lippi (Firenze 1606-1665), “Donna con maschera”