Qui, il qunto appuntamento con la "Narrativa d'Appendice" per godere della fine del racconto di Rossella Maggio, che si è snodato in cinque puntate, pubblicate ogni sabato. Buona lettura...
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“A dirti la verità qualche sfizio erotico con donne me lo sono levato anch’io.” Anna non mancò di sorprenderlo. Ma in fondo non era sorprendente che la sua poliedrica curiosità non l’avesse portata anche a qualche indagine del genere. “Ma posso confermare che resti dannatamente femminile.”
Beh, mi sono altrettanto confermata nelle mie tendenze sessuali. Del resto le esperienze servono a questo, no? A confutare o a confermare.” Ragionamento che non faceva una piega, quanto a trasparenza e pulizia di pensiero. Nessun pregiudizio, nessuna ipocrisia: Anna era rimasta come la ricordava. E nulla, in lei, la vita aveva guastato. Del resto anche Marco aveva sempre cercato di essere il più onesto possibile con sé stesso, di aderire per quanto poteva alla sua essenza più vera e di manifestarla. Era grato a Fil per averlo accompagnato in quella loro avventura, perché ora sapeva che, quando si trattava d’amore e di sentimenti autentici, la distinzione tra sessi poteva per entrambi cadere. Questo non lo rendeva insensibile al fascino femminile, le confidò. E, per quanto valesse anche per il suo compagno, non sempre Fil ne era contento.
“E` così semplice vivere…”, disse d’un tratto,” perché ci complichiamo tanto le cose?” Gli oppose un silenzio rispettoso. Come a lasciarlo andare libero con i suoi pensieri a tirarsi le somme con una risposta che lei intuiva: “Forse perché altrimenti ci annoiamo…!”
Camminando erano arrivati a Porta Napoli, fatta erigere in direzione della città partenopea appunto e in onore di Carlo V d’Asburgo, dall’architetto militare Gian Giacomo dell’Acaya, per aver aiutato il popolo salentino a scongiurare l’attacco dei Turchi. Dalla piazzetta antistante il grande arco trionfale, sul cui campeggia lo stemma imperiale asburgico veniva la melodia potente di sapore argentino di un Illegal, una di quelle riunioni a cielo aperto dei tangheri di una località. Dal fiato ampio e cadenzato del bandoneon la riconobbero subito: “La Yumba!” La voce dell’uno si sovrappose a quella dell’altra. Come ci è arrivato Pugliese a Lecce, si chiesero entrambi, trovando che quei suoni caldi e profondi del bandoneon ben si sposavano con le cascate di sgargianti bouganvillae che, dai giardini pensili, si rovesciavano sulle colonne angolari dei palazzi nobiliari all’interno delle mura. Foreste di gelsomini testimoniavano la loro presenza all’interno dei cortili, con un odore intenso e penetrante che si diffondeva nell’aria dolce della tarda sera come una profumata magia. Avevano lasciato la loro città d’origine più di vent’anni prima, quando le vie del centro storico offrivano lo spettacolo desolato dell’abbandono e dell’incuria e ora si trovavano ad attraversare un rigoglio di facciate, mensole, timpani e stemmi, decori e capitelli riportati al loro antico splendore dalle mani di abili restauratori. Una miriade di localini e di botteghe si era infittita, arricchendone le strade e le giornate di turisti, le serate di allegre compagnie. I cortili aperti lasciavano intravedere curatissimi giardini che esibivano la bellezza dirompente delle piante esotiche e lo svettare di altissime e frondose palme sfuggite all’epidemia del punteruolo rosso. Caddero l’uno negli occhi dell’altra, le mani si cercarono, le dita si sfiorarono, le braccia si strinsero alle braccia e cominciarono a ballare come sapevano, come ricordavano, muovendosi al rito di quella melodia dolce e forte, ritmata e altera, struggente come la folla dei ricordi che attraversava, come immagini in fuga, i pensieri di entrambi. E, mentre scivolavano uniti nella notte, muovendosi all’unisono, incantati dall’armonia che insieme riuscivano ad evocare le immagini del passato si fecero d’un avvenire, per loro unanime scelta, non avvenuto. Per quel breve istante in cui restarono fusi nella danza dei corpi, i desideri intrecciati, le idee dentro agli ideali, i sogni dentro alla vita, che emanava dai pori, dalla pelle, dall’unisono dei passi, la meraviglia di ciò che avrebbero potuto vivere insieme, riavvolgendo i giorni e gli anni all’indietro come una pellicola a ritroso, li avvolse in una luce stregata, battesimale e intatta come l’origine. E furono avventure, le mille e più avventure che insieme avrebbero inventato, come avrebbero inventato una casa, o più case, un lavoro o più lavori, e poi abbracci e notti di luna e figli e cani e giardini e le acque dei mari e dei laghi, dei fiumi, le gole innevate, tra i monti e le vette coronate di sole, boschi e foreste, il profumo allegro dei fiori dai colori più intensi, il battito felice delle ali in volo e la ruota regale del pavone, la delicata trasparenza multicolorata delle farfalle… La musica sfumò, s’interruppe piano con un ultimo lamento dolce. Si trovarono distanti un passo, il tanto che bastava ad interrompere quel lungo sogno. Ma gli occhi restarono negli occhi, fissi, immobili con una luce di vissuto che oltrepassava il tempo e valicava lo spazio. Li avevano avuti davvero tutti quegli attimi che avevano intessuto gli anni e davvero avevano vissuto ogni cosa e proprio in quel modo, come lo avevano desiderato e deciso. La risata felice che era pienezza, che era avventura e sogno, che era vita si materializzò sonora con una nota d’allegria che aveva il profumo buono del pane appena sfornato.
“Li fanno i cornetti ancora all’alba, qui?” Chiese Marco.
“Non possiamo tradire i pasticciotti!” lo fucilò con uno sguardo, Anna.
“Mi arrendo”, fece lui ridendo,” ma dove li troviamo caldi a quest’ora?”
“Al forno “Te lu ranu”, disse Anna. E aggiunse, invitandolo a seguirla: “Vieni! Per di qua!” Si inoltrarono nel cuore antico della città addormentata per una stradina stretta, una serpentina lastricata di basoli lucidi nella notte, fino ad un portoncino verde, col battente mezzo accostato, da cui filtrava un chiarore caldo nell’alone di farina che galleggiava nell’aria, i pani allineati per essere dorati, le forme dei tradizionali pasticciotti, già farcite di crema abbondante, pronte sulle spase per essere infornate.
‘Nzinu!”, Anna chiamò, “ci regali un pasticciotto caldo, ché stamane partiamo e chissà quando torniamo Lecce?”
Sorriso aperto e pancione in bella mostra, sotto il laccio del grembiule bianco, Oronzino il fornaio, rispose: “Eccome no! Nu sì la figghia te lu dottore Francu, ca s’ì partuta pe’ Milanu o pe’ l’esteru, comu tanti figghi nosci perché, quai, nu se troa lavoru?” L’avrebbero abbracciato e lo abbracciarono, infarinandosi i vestiti di grano macinato e di bontà, la bontà antica di una terra che gli era stata madre e poi li aveva svezzati, mandandoli nel mondo, con la nostalgia profonda di quelle due braccia di mare, lungo i litorali, nel cui ricordo di luce franta dalle onde, tornavano a rifugiarsi, dopo mesi di giornate buie negli uffici, di respiro viziato, nelle sale dei meeting, dei convegni, dei party, di una Milano non più da bere, solo da sfangare come pedine dentro un gioco finto. Dopo i grattacieli e le costruzioni avveniristiche, le spiagge artificiali di Singapore.
FINE