“La bella estate”, arte e talento di un autore moderno - di Matteo Gentile

“La bella estate”, arte e talento di un autore moderno - di Matteo Gentile

      “Il vero talento di una donna è saper fare la scelta giusta”. In questa frase la regista e sceneggiatrice Laura Lucchetti illustra, in un certo senso, una delle sue chiavi di lettura della sua trasposizione cinematografica del romanzo “La bella estate” di Cesare Pavese, uscita nelle sale italiane il 24 agosto scorso.lllppoi

(Laura Lucchetti)

     Scritto nel 1940 e ambientato nel 1938, “La bella estate” fa parte di una raccolta di tre romanzi brevi, alla quale dà il titolo, ed è stato definito dallo stesso autore e dalla critica come un racconto di crescita. Le altre due opere erano “Il diavolo sulle colline” (1948) e “Tra donne sole” (1949) e nel 1950 questo trittico vinse il Premio Strega. In una Torino in pieno clima fascista, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, l’adolescente Ginia (nel libro è Gina), interpretata nel film da una bravissima Yile Vianello, è alle prese con la propria voglia di diventare adulta, e l’estate rappresenta proprio questa fase della vita.

     In questo suo percorso di presa di consapevolezza di sé, del proprio corpo e delle proprie aspettative, la sua musa ispiratrice è Amelia, la debuttante figlia d’arte Deva Cassel (figlia di Monica Bellucci e di Vincent Cassel), una ragazza bella e sensuale, più grande di lei, che si guadagna da vivere posando come modella per pittori bohémien. Ginia si trova così catapultata, dall’atelier di moda in cui lavora come sarta e aspirante stilista, in un mondo che non le appartiene ma nel quale si trova coinvolta e in cui sembra perdersi.

     Quello del talento è uno dei temi affrontati dalla regista, accanto a quello della sofferenza da dimenticare per essere felici, e la scelta che Ginia si trova a dover effettuare è quella tra il dovere che le viene assegnato dalla società e la scoperta di un nuovo sentimento che, invece, la confonde. Una tematica quanto mai attuale, trattata da Pavese in maniera sorprendentemente moderna, a cui è stata forse data poca attenzione nell’ambito della letteratura italiana contemporanea nonostante il Premio Strega conseguito nel 1950. “La bella estate”, a sua volta, sembra essere destinato a rimanere un film di nicchia (in Puglia è attualmente programmato soltanto a Polignano), quasi sulla scia del trattamento riservato, purtroppo, a chi fa un tipo di arte non omologata alle tendenze del mercato. Come Ginia si trova a combattere contro i pregiudizi del suo tempo, e così come il romanzo di Pavese forse non ha trovato il giusto collocamento nel mondo dei classici della letteratura del ‘900, anche il film di Lucchetti si va a collocare in una cerchia ristretta di film d’autore, in un mondo dell’intrattenimento che, oggi più che mai, non vuole rischiare, ma si affida sempre più ai prodotti cosiddetti commerciali, a scapito di produzioni e idee di valore artistico e culturale.

       Il film di Laura Lucchetti, tra l’altro, mette al centro della narrazione il rapporto tra Ginia e Amelia, relegando in secondo piano la storia tra la giovane protagonista e il pittore Guido. Persino la scena d’amore tra questi ultimi viene offuscata dalla tenerezza e dalla sensualità di quella tra Gina e Amelia, nella quale il gioco di sguardi e di carezze tra le due ragazze assume una poetica quasi eterea. La regista non indulge nell’erotismo o nel sensazionalismo della scena tra le due donne, e non è pudore quello che traspare nell’intreccio di mani e di pensieri che passano attraverso gli sguardi dei due personaggi femminili, quanto piuttosto presa di consapevolezza di come un sentimento non possa essere ingabbiato nelle maglie dei pregiudizi. Nella sua crescita, Ginia si trova a fare i conti anche con l’ostentazione della propria femminilità attraverso la corporeità: “voglio che mi guardi un’altra e mi faccia vedere chi sono”, dirà per motivare la sua scelta di farsi ritrarre nuda, per poi accorgersi che non è ciò che vuole davvero.

      Nel romanzo e nel film si parla di pittura, con riferimento al concetto di rappresentazione del proprio corpo come rivendicazione della propria esistenza nel mondo, una tematica più che contemporanea. Sotto questo aspetto si potrebbe anche pensare a un riferimento ai social media delle fotografie, dove apparire è la parola d’ordine, prima di “essere”. Ma Ginia vuole essere importante per qualcuno e soprattutto per sé stessa, in una continua ricerca di approvazione da parte del fratello, della stessa Amelia, e della società in generale. Una ricerca di approvazione che non può e non deve passare attraverso l’annientamento di sé stessi ma, al contrario, necessita di una presa di consapevolezza dei propri limiti e dei proprio punti di forza: del talento, appunto, che ognuno possiede e che va coltivato.

     Per Cesare Pavese il talento femminile è innato ed è una disposizione originaria, “un assoluto virtuosismo nel conferire al finito un senso”, ed è probabilmente a questa considerazione che Lucchetti si è ispirata nel dare ancora più forza al personaggio di Ginia, che da ragazza timida e incerta si ritrova, nell’arco della sua estate della crescita, a diventare una donna sicura di sé e delle proprie aspettative nei confronti della vita e del mondo.

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      Di Cesare Pavese viene spesso utilizzato l’aforisma “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, estrapolato dal romanzo “La luna e i falò”, il quale ricorda come ognuno abbia bisogno di un luogo del cuore in cui ritrovare sé stesso e le proprie origini. Proprio il 9 settembre ricorre il 115° anno dalla nascita dello scrittore e poeta a Santo Stefano Belbo, un piccolo comune in provincia di Cuneo, nel cuore dell’Unione montana Alta Langa, e così come fa ne “La bella estate”, l’autore descrive ne “La luna e i falò” una società piemontese che sembra aver smarrito, per colpa anche e non solo della Seconda Guerra Mondiale, quella voglia di ricerca di una propria identità, delle proprie radici, di un senso di appartenenza a una società per vincere la solitudine che incalza l’uomo privo di una comunità.

       Una poetica moderna e universale che il film “La bella estate” ripropone e porta a un pubblico attento, aggiungendo un concetto sotto traccia che viene evidenziato nel trailer del film attraverso la frase: “non bisognerebbe mai abituarsi al dolore. L’infelicità non serve a niente”.

Matteo Gentile

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