Sconosciuto ai più, nelle ultime settimane si è posto sulla ribalta dei media il MES, quale strumento per salvare l’Italia e il suo Stato dalla difficile situazione economica nella quale sono piombati, a seguito “dell’incidente” COVID-19. Strumento che, secondo gran parte dell’opinione pubblica e dei partiti all’opposizione sarebbe pericoloso, un’arma a doppio taglio. Diversa invece la posizione di una ristretta cerchia di classi sociali e delle forze al governo. E tuttavia in molti non sanno esattamente di cosa si tratti, cosa sia effettivamente il MES e come operi e a cosa effettivamente serva.
Il MES (detto anche Fondo Salva-Stati) è una istituzione privata di caratura europea, una sorta di banca, che nasce nel 2012 con lo scopo di sostenere quei paesi del vecchio continente in crisi e\o vicini, secondo certa dottrina, al default, ovvero al fallimento. E subito qui è interessante capire perché si parli di default per uno Stato. Può la nostra Repubblica fallire? O, in altre parole, la nostra Repubblica è assimilabile ad un’azienda? E qui sorge una forte contraddizione, che ritroviamo anche nell’uso e nella concezione della nostra moneta, ovvero l’Euro, il quale è assoggettato a disciplina privatistica, svolgendo di fatto funzioni pubbliche.
Ad ogni modo, lo Stato che ha finalità pubbliche può essere equiparato e trattato con una concezione prevista solo per le questioni private, quali appunto le aziende di produzione?
In tale confusione e contraddizione, pare che si voglia abbattere tutto ciò che è riconducibile al pubblico e alla Repubblica. Siamo in presenza di una privatizzazione dello Stato con tutte le sue funzioni sociali, e da qui, c’è chi ha interesse a fare un passo in dietro nel feudalesimo? Ma andiamo al dunque.
Il MES ha una dotazione di 80 miliardi di euro, che sono stati versati dai vari stati dell’eurozona proporzionalmente alla capacità e importanza economica dei paesi che vi aderiscono. Una dotazione che può raggiungere l’ammontare di oltre 500 miliardi. Una “potenza di fuoco” destinata all’erogazione di prestiti nei riguardi, come s’è già accennato, degli Stati europei in difficoltà. Prestiti che non sono accompagnati da una disciplina pubblicistica, ma di stampo prettamente privatistico.
Il credito erogato ad uno Stato infatti è condizionato non solo al ricorso di ipoteche di beni pubblici, ma come ogni banca, nell’erogare il credito nelle aziende in crisi, come i più sanno, dettano le regole di gestione del ricorrente. Ed ecco che, se lo Stato italiano, che è una Repubblica, e cioè del popolo italiano, dovesse sottoscrivere un prestito nei confronti del MES dovrebbe, in primo luogo, ipotecare i suoi beni. E non solo. Deve attenersi, nelle sue scelte, alle direttive della governance del MES. Di fatto dunque se si dovesse sottoscrivere un prestito presso il MES sarebbe la fine della politica, la fine della democrazia, la fine della libertà di pensiero e di espressione, dovendo tutti quanti stare alle regole dettate da chi ci ha dato il danaro per risollevarci dalla crisi economica in cui siamo “incappati”.
Finora i paesi che hanno fatto ricorso al MES sono 4: Cipro, Portogallo, Irlanda e Grecia. Noto è il caso di quest’ultima, la Grecia appunto, che nel 2015 ha visto la propria realtà cadere (o forse l’hanno voluta far cadere gli stessi greci, quella parte più capitalistica?) sotto il peso di decenni di “malapolitica e corruzione”, e obbligata (o costretta dagli stessi capitalisti greci?) a chiedere aiuto al MES. E vediamo a quale costo. Per poter accedere ai mezzi di sostegno finanziario del MES, la Grecia ha dovuto sottostare alle direttive della governance del MES che ha imposto di rendere più “snello” il mercato del lavoro a livello legislativo, privatizzare il privatizzabile per poter aumentare le entrate e parallelamente diminuire la spesa pubblica tagliandone servizi. Questo processo di ristrutturazione viene sorvegliato dalla ormai celebre “Troika”, il trio composto da Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea.
Tutto lascia ipotizzare che il ricorso al MES da parte dell’Italia porterebbe il nostro Stato a dismettere, privatizzando dunque, gran parte della Sanità, dell’Istruzione e della Previdenza, conservando solo le strutture per il prelievo fiscale e le operazioni militari. Insomma, approderemmo ad una Stato liberale, “come da manuale”. E questo perché è improbabile, date le condizioni di restituzioni e le capacità di pagamento dell’Italia, di restituire tutto il debito contratto. Cesserebbero così tutte le funzioni sociali dello Stato, che demanderebbe al capitale privato l’assolvimento di queste. Un ritorno al welfare privato, insomma, già esperito nei primi anni ’50 dello scorso secolo, di cui esempi importanti furono quelli legati all’Olivetti, alla Snia e via dicendo, pur non mancando episodi di grande rilievo già sul finire dell’Ottocento, come l’esempio di Crespi d’Adda, nel bresciano.
Sorge a questo punto una domanda: è forse che i capitalisti si stanno riprendendo ciò che hanno dato in gestione allo Stato, con la crisi del 1929, prima, e del 1973, poi?
Francesco Cavallo