Ricorre oggi il giorno che ha segnato la storia d’Italia, uno dei giorni più importanti per il Nostro Stato e per la popolazione italiana, per tutti noi, dunque. Quel 2 giugno 1946, nasceva la Repubblica italiana, voluta e decisa dagli italiani, chiamati per la prima volta alle urne con il suffragio universale.
Votarono in più di 20 milioni, votarono per la prima volta, dunque, anche le donne, per scegliere tra la Repubblica e la Monarchia. Lo scarto tra chi sosteneva un assetto pubblicista e chi, invece, preferiva un Capo di Stato con la corona, non fu netto, nonostante la popolarità del Re non fosse la più sgargiante, ricordando con forza il ventennio fascista, e la vittoria secca delle forze democratiche e comuniste. Ancora oggi non sono pochi coloro che provano a leggere le ombre degli anni immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e lo stesso vale per quella prima votazione democratica ed universale, sui quali vi è ancora il sospetto di possibili brogli. Tuttavia, a più di settant’anni da allora, il 2 giugno di ogni anno, in Italia, si ricorda quella scelta di popolo, che vide la nascita della Repubblica e, allo stesso tempo, della prima assemblea costituente della storia italiana.
Va subito detto che, non serve aver studiato approfonditamente la lingua latina o il diritto pubblico, per capire la differenza tra la Repubblica e la Monarchia, tra una forma di Stato in cui il popolo è sovrano e una forma di Stato riconducibile solo ad una persona, il Re appunto, tra uno Stato che si esprime tramite rappresentanti del popolo votati dal popolo stesso e rappresentanti del popolo nominati e designati quasi esclusivamente da una sola persona.
Per comprendere la portata storica della scelta fatta nel 1946 basta intercettare l’etimo stesso di repubblica: Res-Publica, traducibile in “cosa pubblica”. Il concetto può rivelarsi ancora più chiaro se analizzassimo le parole pronunciate da uno dei più grandi pensatori dell’età repubblicana romana, Marco Tullio Cicerone, che nel suo trattato politico, scritto cinquant’anni prima della venuta di Cristo, afferma: «La res-publica è cosa del popolo; e il popolo non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone associatosi intorno alla condivisione del diritto e per la tutela del proprio interesse». Ecco, allora, che si inseriscono gli elementi fondamentali dell’architettura statale odierna e assunta in quel 2 giugno di settantaquattro anni fa, ovvero il popolo. Questo, infatti, divenne il protagonista della vita sociale italiana, l’attore principe del nuovo Stato. Sicché il popolo e i suoi diritti entrarono dirompenti nella carta costituzionale, che i rappresentanti eletti all’assemblea costituente riuscirono a disegnare, per poi presentarla agli italiani, perché la votassero due anni dopo. Qui, nell’articolo 1 della Costituzione italiana troviamo affermato con forza e in maniera prioritaria l’orientamento principale dello Stato: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»
Ed ecco che, se la Repubblica italiana trova il suo fondamento nella volontà popolare, è tuttavia nella Costituzione che si tracciano la sua morfologia, il suo carattere, i suoi motivi e punti di riferimento. E ancora oggi, bisogna soffermarsi sul ruolo della repubblica e sulla sua reale e concreta esistenza, proiettandosi nell’analisi dove i principi costituzionali gettano la loro luce.
In tale prospettiva, oggi più che mai è necessario chiedersi ancora se la nostra Carta Costituzionale sia rimasta attuale, funzionale di orientamento, ovvero se è sempre la pietra angolare della nostra democrazia e delle nostre libertà. Quesito questo che anima da molti anni il dibattito fra gli intellettuali più in vista nello scenario politico nazionale. E così, da una parte troviamo chi sottolinea che la nostra Costituzione nei suoi dodici principi fondamentali sia stata spesso maltrattata nella sua applicazione, se non quando dimenticata e disapplicata. Vari potrebbero essere gli esempi da portare a sostegno di tale tesi, ma basti osservare come lo Stato non operi per creare le necessarie condizioni perché il lavoro possa rendere autonomi i cittadini, perché sia la solidarietà a spingere l’azione civica, perché tutti coloro che mettono piede sul suolo italiano possano sentirsi uguali agli altri, perché le menti possano svilupparsi con una formazione e una ricerca libere e finanziate, perché, in ultimo, proprio giovani e meno giovani non partecipino a guerre imperialiste o conflitti armati contro popoli oppressi. Insomma, quel giorno all’inizio di giugno del 1946, sarebbe potuta nascere realmente la Res-pubblica, ma sin da subito l’abbiamo spesso svenduta a gruppi di interesse legali e illegali, leciti e meno leciti, legittimi e illegittimi.
D’altra parte v’è chi fa notare che molti dei principi dettati dalla Costituzione contengono astrazioni estreme, anche se ciò non depaupera la sua validità, rappresentando questi dei perni attorno a cui costruire e far ruotare proprio la democrazia intesa nella sua natura profonda, ovvero l’alternarsi di tentativi politici finalizzati alla ricerca di una “via giusta”.
Ad ogni modo è d’obbligo chiedersi se la Repubblica italiana e i suoi attori subiranno cambiamenti sostanziali da questa emergenza sanitaria. E ciò, se non nell’assetto formale dello Stato e dei suoi poteri, almeno negli aspetti concreti e reali e se questi riusciranno a resistere alle spinte che, forse inevitabilmente, giungeranno da più parti.
Dopo quasi ottant’anni di vita, la Repubblica dovrà far fronte ad una emergenza sanitaria, mai vista nella storia, e alle sue devastanti conseguenze e risvolti economici e sociali, che richiedono risposte, si spera nella direzione della democrazia e della sopravvivenza della stessa Repubblica, dunque.
Massimiliano Lorenzo