Quello che sta avvenendo nei territori del Caucaso Meridionale, in Asia, è il chiaro esempio di una situazione conflittuale mai risolta. Dopo le avvisaglie dello scorso 12 luglio, con violenti scontri, e un tutt’altro che definitivo cessate il fuoco, infatti, l’artiglieria è tornata a brillare nei territori del Nagorno-Karabakh, regione indipendente a maggioranza armena in Azerbaijan.
Ma questo conflitto armato non è una nuova guerra per il controllo di un territorio, anzi. Nel Nagorno-Karabakh o Artsakh in armeno, lo scontro si è mostrato al Mondo già sul finire degli anni ’80 del Novecento, continuato a bassissima intensità fino alla debole pace siglata nel 1994, dopo sei anni e circa 30mila morti e migliaia di sfollati. In realtà, però, una vera e propria pace, questa enclave armena in territorio azero, non l’ha mai conosciuta. L’Azerbaijan guidato dal Presidente Ilham Aliyev non ha mai riconosciuto quel referendum che dichiarò Artsakh regione indipendente, non l’ha mai legittimato e non si è mai convinta della sovranità perduta nel 1994. Insomma, gli scontri negli anni, tornati ad essere oggi guerra, erano tizzoni ardenti che covavano sotto la cenere.
E quella regione, nel 2018, ha conosciuto anche una Rivoluzione, cosiddetta di “Velluto”. Quei sommovimenti costrinsero alle dimissioni l’allora primo ministro Serž Sargsyan, al terzo mandato, e portarono alla guida della Repubblica Artsakh l’ex-giornalista e membro del partito d'opposizione Contratto Civile, Nikol Pashinyan. Ed ancora, i negoziati e le trattative per una vera pace sono proseguite anche tra Aliyev e Pashinyan, sotto l’egida del Gruppo di Minsk, composto da Russia, Francia e Stati Uniti. Ma la visita del primo ministro della regione indipendente, lo scorso maggio, nella città di Sushi, prima abitata da azeri costretti alla fuga nel 1994, e il suo discorso a tinte nazionaliste, sono stati letti come una provocazione e la fine di ogni trattativa da parte azera. E proprio da quel momento, il Presidente Ilham Aliyev ha preparato il terreno per un intervento risolutivo.
Vari però sono i motivi che spingono la dirigenza azera a proseguire il conflitto armato. L’ennesima provocazione, almeno nella lettura di Baku, capitale azera, delle esercitazioni militari armene nel territorio conteso, a cui ha preso parte anche la moglie del primo ministro Pashinyan, lo scorso fine agosto. Un addestramento che ha avuto luogo proprio dopo quegli scontri del 12 luglio, e che hanno lasciato una forte voglia di rivalsa nei generali militari azeri. Ed è proprio questo un motivo intestino per Aliyev. Lo stesso, oggi, si fa poi forza dell’esplicito sostegno turco, confermato proprio dal Presidente Recep Tayyp Erdogan, che si è detto pronto a difendere con ogni mezzo l’Azerbaijan contro lo storico nemico armeno. Da una parte e dall’altra, poi, l’utilizzo dell’artiglieria pesante e dei sistemi di difesa aerea, non fanno che infuocare lo scontro e favorire l’escaltion militare. E nemmeno l’occupazione di sette villaggi da parte azera, lo scorso fine settimana, sufficiente a sanare la rivalsa militare degli uomini di Aliyev. Ed ancora, dall’altro lato, quello della dirigenza armena, Nikol Pashinyan non può arretrare di un passo, non può dimostrarsi arrendevole e fare peggio di chi lo ha preceduto.
Ed ecco, allora, che possiamo completare il quadro, osservando quali sono le forze straniere in campo. Prime fra tutte, la Russia di Putin, considerata la grande protettrice dell’Armenia, ma storicamente equidistante dalle due Repubbliche ex-sovietiche, con le quali continua a intrattenere rapporti e che oggi chiede un immediato cessate il fuoco, per tornare a far parlare la diplomazia. Ma l’elemento più attivo sullo scacchiere è proprio la Turchia di Erdogan, impegnata su vari fronti per conquistare autorevolezza e potere anche nell’area caucasica, dopo gli interventi in Siria e Libia. Una Turchia certamente interessata anche ai giacimenti di gas e petrolio, ed un Erdogan pronto a schierare migliaia di mercenari reclutati tra le milizie filo-turche che occupano la curda Afrin, in Siria. Da fonti armene, infatti, parte di questi miliziani sarebbero già in azione. E così, Putin deve affrontare una non semplice gestione della situazione conflittuale, trovandosi tra l’alleato “a giorni alterni” turco e la difesa dell’Armenia.
In fine, una menzione particolare va fatta dell’Italia, coinvolta non poco nella crisi, essendo il primo partner commerciale dell’Azebaijan di Ilham Aliyev. Infatti, i due Paesi hanno in essere ben 28 accordi commerciali, che comprendono anche il rifornimento di petrolio e gas. E stiamo parlando proprio degli accordi per quel gasdotto che nel tratto italiano prende il nome di Trans-Adriatic Pipeline, o TAP, e che arriva sulle nostre coste salentine di Melendugno. Proprio per questo, e concludiamo, l’Italia potrebbe essere l’elemento adatto a mediare e portare a più miti consigli armeni ed azeri. Ma ne ha la forza sullo scenario internazionale? O è il momento dei turchi e di una guerra prolungata? Le prospettive sono tutt’altro che rosee, ma è un’altra occasione per le grandi potenze geopolitiche e per dimostrare che la concertazione internazionale ha ancora qualche peso.
Massimiliano Lorenzo