Lecce è fuor di dubbio una splendida città e, senza nulla togliere agli altri capoluoghi di provincia, il fiore all’occhiello della Puglia, e non solo. La conosciamo infatti per il suo barocco, che la rende consorella di città siciliane come Palermo e Noto, ma con la peculiare differenza della pietra usata per abbellire facciate di chiese e palazzi: la famosa pietra leccese dal colore chiaro e dalla tessitura porosa e friabile che la rende in sommo grado adatta a lavori di cesello. Dolce e malleabile, riflette il temperamento stesso del Salento, dei salentini e dei salentini dell’area leccese che, come sappiamo, si portano dietro sicure tracce di provenienza orientale. E dalla cultura greca infatti originano i “luoghi d’acque”, cioè i ninfei, dei quali abbiamo diversi esempi proprio in Lecce.
Vale la pena ricordare che, le ninfe erano divinità legate alla natura. Potenze divine dei boschi, degli alberi, delle sorgenti, il loro appellativo rientra nel concetto espresso dal verbo αείδω, il cantare nel senso di gorgheggio, fruscìo di foglie, sibilo di vento, melodiosa voce umana: è il canto della natura, fatto di sussurri, religioso pudore e riservatezza, incantato stupore di fronte a ciò che è puro.
Le ninfe proteggono la natura incontaminata, nell’immacolatezza del silenzio ove è accolto soltanto il respiro del vento, che muove le essenze sprigionate dalla terra, dai fiori, dai frutti, increspa la risata delle acque sorgive e innalza le creste dei mari e degli oceani. Si manifestano in forme di straordinaria bellezza e sono originariamente immortali.
I luoghi arcaici a esse dedicati sono ovviamente immersi nella natura, ma intorno alla fine del Cinquecento e successivamente nel Seicento, alcune famiglie benestanti leccesi subirono il fascino dell’antichità classica e all’interno delle loro proprietà progettarono e fecero edificare i cosiddetti Ninfei.
In epoca romana, i Ninfei erano sale affacciate sul peristilio, cortile circondato da porticati, e caratterizzate da un’edicola mosaicata da cui scaturiva l’acqua. Queste edicole avevano spesso dei decori fatti da incrostazioni di schiuma di lava e conchiglie, dalle quali presero origine le rocaille largamente diffuse nei Ninfei delle ville cinquecentesche e poi negli stucchi rococò degli edifici. Molte delle abitazioni più ricche di Pompei ed Ercolano ne sfoggiano di sontuosi di questo tipo. Dagli antichi Ninfei derivano i moderni “teatri d’acqua” in rocaille che ebbero larga diffusione nel Rinascimento e fino a tutto il Settecento. Questi erano delle grotte a esedre, ossia artificiali, abitate da statue, arricchite da ingegnosi getti d’acqua e da esuberanti e articolate decorazioni costituite da pietre pomici, conchiglie, coralli, madreperle e tufi. Valgano per tutti i magnifici esempi di Villa d’Este a Tivoli e di Villa Giulia a Roma.
A confronto di queste meraviglie i più modesti Ninfei leccesi testimoniano comunque il protrarsi anche in provincia del costume del ninfeo.
Tra i più noti della città barocca da visitare è quello accanto alla “Torre del Parco”, scoperto nel Settecento, e ancora il ninfeo scavato sotto la “Torre di Belloluogo”, quello nel giardino del “Convento dei frati di Fulgenzio”, quello presso gli Olivetani e il Ninfeo delle Fate all’interno della “Masseria Tagliatelle”, sorta sulla proprietà di Scipione di Summa, governatore di Terra d’Otranto dal 1532 al 1542.
Il Ninfeo delle Fate, rimasto poco conosciuto ai più e di recente valorizzato, deve il suo nome alla presenza di nicchie all’interno delle quali vengono raffigurate figure femminili a grandezza naturale. La leggenda vuole che le fate abbiano soddisfatto il desiderio di maternità di una donna che ivi si recava, cullando tra le braccia un pezzo di legno, tramutatosi per incanto in un bimbo vero.
E per concludere una piccola curiosità: ho ambientato in questo luogo, senza dubbio suggestivo e allora ancora in stato di recupero, l’incontro conclusivo tra due ragazzi nel mio romanzo “Figlia Mia”-Caosfera Ed, 2017-:
“Le ninfe raffigurate nella pietra li osservarono arrivare in un ronzio di scooters, come se, in quel luogo e a quell’ora, li aspettassero da secoli. Lorenzo alto e magro, biondo e con gli occhi di grano maturo, Celeste mora e flessuosa, immagine veritiera della celestialità della terra, con quel grumo incandescente nel cuore, ricordo ancestrale di antichi splendori.”
Rossella Maggio