Abbiamo incontrato con meravigliata curiosità Beatrice Stasi, professoressa di Letteratura Italiana, presso Università del Salento. La sua ricerca è focalizzata su autori tra Ottocento e Novecento, nella quale si privilegia Leopardi, Pirandello e Svevo. Tra le altre e non a caso, quest’anno è stata insignita del Premio Speciale “Inedito Ritrovato”, prestigioso riconoscimento all’interno del “Premio InediTO Colline di Torino”, in quanto la Nostra Stasi ha ritrovato una preziosa lettera del 1923 di Italo Svevo, riportata qui seguito, dopo l’intervista.
Professoressa Stasi, cominciamo dalla fine, con alcune informazioni sul lodevole riconoscimento che le è stato conferito.
Il conferimento di un premio è sempre una bella notizia, ma difficilmente una sorpresa assoluta, perché in genere si è al corrente dell’iniziativa, se non ci si è addirittura iscritti per partecipare. Quanto invece ho ricevuto via mail dal gentilissimo Valerio Vigliaturo, direttore del “Premio InediTO Colline di Torino”, la notizia che il Comitato di lettura e la scrittrice Margherita Oggero, presidente della Giuria, avevano pensato di premiare la lettera di Svevo che avevo ritrovato, confesso che non sapevo nulla di questa bella e popolare manifestazione. Tanto più gradito, ovviamente, è giunto il riconoscimento, che mi ha confermato come la scelta di fare uscire la notizia del ritrovamento dagli stretti canali della comunicazione accademica, anticipando la pubblicazione della lettera su una testata giornalistica diffusa come il “Corriere della Sera”, fosse stata una buona idea. In questo modo, infatti, era stato possibile attirare l’attenzione non solo degli studiosi, ma di un pubblico più ampio su un capolavoro come La coscienza di Zeno e sulla vicenda della sua pubblicazione. Prima ancora di quest’ultimo riconoscimento, l’articolo che ho pubblicato sul “Corriere” è stato ripreso da un servizio della sede RAI di Trieste (con una mia breve intervista), da un programma radiofonico di Rai3, e da altri giornali come “Il Piccolo” di Trieste, il “Quotidiano di Lecce”, il “Corriere canadese” (dove è apparsa una mia intervista).
E poi torniamo all’inizio: la sua antica passione, che si sviluppa nell’ambito della ricerca che le ha offerto l’opportunità dello straordinario ritrovamento di una lettera... ci piace che lo dica lei!
Come quasi tutti i miei colleghi, sono una privilegiata che viene pagata per fare qualcosa che farebbe anche gratis. Nel senso che nessun passatempo o hobby mi attira e mi assorbe con tanta continuità e intensità come il mio lavoro di ricerca. In particolare ho cominciato a cercare materiali sulla Coscienza di Zeno quando mi è stata affidata l’edizione critica di questo romanzo, dal Comitato per l’Edizione Nazionale di tutte le opere di Svevo. Esattamente dieci anni fa ho avuto la fortuna di trovare a Parigi, in casa del figlio del traduttore francese della Coscienza, la copia del romanzo che Svevo aveva mandato al traduttore dopo aver fatto alcune correzioni e segnato i passi che (sempre malvolentieri!) avrebbe accettato di vedere tagliati nell’edizione francese. Ma la famiglia Michel, alla quale apparteneva Paul Henri, il traduttore di Svevo, era una famiglia di archivisti e bibliotecari, e a casa loro ho trovato, perfettamente conservati, ulteriori interessantissimi materiali sveviani, ma anche le lettere di altri illustri autori italiani che Paul Henri aveva tradotto o con i quali era stato in contatto: lettere inedite di Papini, Ungaretti, Moravia, per fare solo i nomi più famosi… Tra tanti famosi intellettuali che ho, per così dire, incontrato in quella casa, però, quello che ricordo con particolare affetto è Olivier Michel, il figlio di Paul Henri, per anni bibliotecario all’Ecole Française a Roma, che mi ha aperto le porte della sua casa (visitata anche da Svevo, che ne parla in una lettera!), gli scaffali della sua biblioteca di famiglia, le scatole dei suoi archivi familiari. Un’esperienza davvero emozionante, anche perché vissuta in prima persona, a Parigi, esplorando librerie, cassetti, faldoni… Invece la lettera di Svevo a Frescura l’ho trovata stando a casa mia, al computer, esplorando online l’archivio elettronico ottimamente catalogato della Fondazione Primo Conti di Fiesole. Davvero sorprendente che nessuno l’avesse trovata prima…
Cosa pensa del delicato e difficile compito dell’editore, quando intende “mettere mano” a un testo letterario?
A rendere così interessante questa lettera (rispetto anche alle altre due che ho ritrovato nello stesso archivio) è proprio la messa a fuoco che consente sul rapporto tra scrittore e revisore editoriale. E dunque la riflessione su quali sono le qualità della scrittura che ne fanno letteratura. Se si pensa che entrambi i maggiori scrittori del modernismo italiano, Pirandello e Svevo, sono stati accusati di scrivere male, si capisce come un modello di correttezza e perfezione formale possa essere inadeguato a definire l’efficacia della comunicazione letteraria. Ancora più interessante è poi vedere come il revisore del romanzo suggerisca a Svevo di cambiare il finale per dire cose che, in realtà, il finale scritto da Svevo già diceva: questo vuol dire che il romanzo aveva già perfettamente raggiunto il suo scopo, solo che un lettore distratto e un po’ supponente come Frescura non se ne era accorto.
Nel caso specifico concordo con lei, ma come saprà la scrittura è un terreno a volte mobile e ambiguo e un editore accorto ha il dovere di porre molta attenzione. Anche se, a volte, suggerire di “cambiare il finale” potrebbe essere una opportuna operazione di marketing. Ma a noi questo non interessa. L'mportante è che lo scritto abbia tutte le caratteristiche di un buon libro. Intanto, torniamo a lei e alla sua ricerca che… continua
Sì, per fortuna! Ora mi sono rimessa a lavorare all’edizione dei Racconti di Svevo (sempre per l’Edizione Nazionale): il problema è che seguendo le tracce di ogni testo, in particolare per quelli che Svevo ha pubblicato, la tentazione di cercare qualche informazione in più sui rapporti di Svevo con i redattori delle varie sedi di pubblicazione rischia (com’è avvenuto col ritrovamento della lettera a Frescura) di farmi esplorare sentieri laterali e di non farmi procedere diritta verso la meta. Ma è proprio questo il bello del nostro lavoro: il farci condurre dalle nostre ricerche e non il condurre le ricerche dove pensavamo di dovere andare noi…
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Trieste, li 15 Febbraio 1923
Egregio Signore, Grazie mille della Sua cara lettera che sento tanto collegialmente sincera da capo a fondo che proprio mai per nessuna Sua parola potrei sentirmi offeso. Io sapevo che l’impresa di ritoccare la mia lingua non poteva dare tutto il risultato che, forse, Lei da principio se ne riprometteva. Dica la verità: Senza fare dei nomi ci sono fra di noi degli scrittori che addirittura vivono del francesismo. Finiscono anzi con lo scrivere in francese nei loro libri italiani. Io non li biasimo perché è il loro destino. Ma poi non li biasimo perché il mio è simile. E badi che anch’io dalla mia nascita in poi sono italiano. So varie altre lingue fra cui il tedesco ma non da tanto da poterlo scrivere neppure bene come scrivo l’italiano.
È un vero peccato ch’io non possa venir subito a Bologna a stringerle la mano e provarle facendole vedere la mia faccia (più chiaramente che in iscritto) quanto io Le sia grato del lavoro ch’Ella dedicò al mio lavoro e di cui – spero – il mio lavoro s’avvantaggerà. Ma al mio ritorno da Londra, dunque dopo la Pasqua, io voglio pur fare questo breve viaggio. In allora del mio romanzo – pur troppo – non si parlerà più perché sarà già pubblicato ed il mio viaggio non avrà altro scopo che di ringraziarla e conoscere l’autore del Diario che tanto piacere mi procurò. Potrei dire molto di più dei Suoi libri, ma non v’è scopo e Lei potrebbe dubitare della mia sincerità.
Il rimprovero di prolissità l’accetto intero. Io so che Lei con un’agile parola potrebbe sostituire varii miei periodi ma non è da aspettarsi che lo possa fare mettendosi al mio posto. È di nuovo il mio destino e non c’è altro da fare che abbandonarmi allo stesso.
Invece non sono assolutamente convinto ch’Ella abbia ragione circa lo svolgimento del romanzo. Mi resta il dolore che un italiano della Sua levatura l’abbia frainteso. Non è un malato il mio, ma un tipo. Però il suo sentimento di essere malato è più vero di quanto possa sembrare a chi non conosce gli studii del Freud e della sua scuola. Ebbi la convinzione che non sarò inteso specie dopo di aver letto un articolo sul Freud di quello studioso del resto rispettabilissimo ch’è il Dr. Ry nel Corriere della Sera e che farebbe ridere i polli se i polli conoscessero il Freud. Io, sinceramente, credo tuttavia che in ogni capitolo il mio eroe sia uno strano uomo che senz’accorgersene (nel penultimo capitolo) spinge alla morte un suo amico dopo di averlo spinto alla rovina.
Ma (c’è un “ma”) raccontare in prima persona certe cose e farle chiaramente intendere non era forse pane per i miei denti. Ricorda che, a giudizio dello Zola, una volta in simile compito fallì il Daudet? Ad ogni modo pubblico risolutamente il romanzo come sta. Sono vecchio e desidero di spingerlo all’aria per non pensarci più neppur io.
Le stringo cordialmente la mano pregandola di spingere il comm. Cappelli perché imponga maggior fretta a Rocca. Tanto più perché non vorrei perdere il buon sole invernale del cui tepore ho tanto bisogno.
Suo devotissimo
Ettore Schmitz