Tante sono le immagini a cui possiamo accostare le parole che usiamo ogni giorno per comunicare, per far giungere agli altri informazioni, opinioni, esperienze personali. La disponibilità odierna di molteplici mezzi espressivi alla portata di tutti, lascia via libera a chiunque di diffondere la propria voce, formulare pensieri, esternare emozioni. Ma spesso, come purtroppo accade, non con la dovuta accortezza nell’usare in modo appropriato e sorvegliato il linguaggio, e trascurando di considerarne i diversi effetti sui destinatari.
Com’è noto, il diffondersi dei social network ha intensificato la comunicazione e lo scambio di parole che molte volte giungono cariche di durezza, volgarità e, nel peggiore dei casi, di intenti offensivi. Non esercitando alcun controllo su quello che si dice nelle chat o con un vocale o con un messaggio scritto- che potremmo meglio definire una rappresentazione grafica del parlato, perlopiù sciatto e impreciso perché immediato, poiché ben altra cosa è la forma scritta!- le parole possono generare in chi le riceve fraintendimenti, ostilità, irritazione. Per non parlare, poi, di esiti più drammatici! Ciò accade perché non si dà la dovuta importanza alle risonanze emozionali provocate da quanto, incautamente o senza freni, si dice; e non accadrebbe, invece, se venissero costantemente riconosciuti e valorizzati la dignità di ogni essere umano e il diritto al rispetto personale.
Ma accanto alle parole scagliate come pietre, che provocano ferite non facilmente rimarginabili nell’anima, ce ne sono altre più innocue e inoffensive che proliferano a dismisura e si diffondono con la rapidità di un polverone sollevato e spinto dal vento. Pronunciate per lo più come un chiacchiericcio vano, intriso di banalità, oppure scritte in un susseguirsi ripetitivo di luoghi comuni, di frasi prive di contenuti o idee che inducano al dialogo o alla riflessione, si disperdono subito nel nulla. Ritorna alla mente la risposta di Amleto a Polonio che gli domanda che cosa stia leggendo: “Words! Words! Words…”, cioè, parole, solo parole che non dicono nulla, prive di consistenza, che si limitano ad esprimere un arido sentire.
E oggi, tanto più che abbiamo a disposizione svariati canali comunicativi, più che in passato, potendo far giungere con facilità le nostre parole agli altri, diviene doveroso assumerci la responsabilità dell’uso che ne facciamo, ponendo attenzione a non invadere spazi senza chiedere il permesso e, soprattutto, non ricorrere ad un linguaggio aggressivo o irrispettoso.
A questo punto giunge un’altra immagine, e questa volta positiva, che associo alle parole: rugiada. Questo elemento della natura così benefico per le piante, racchiude in sé alcune qualità che, trasposte alle parole, le rendono uno strumento espressivo capace di valorizzare la comunicazione, favorendo relazioni interpersonali incentrate sul rispetto e su atteggiamenti di comprensione e accoglienza. Si sa che la rugiada si forma per condensazione, allo stesso modo le parole dovrebbero essere un distillato che scaturisce da un pensiero profondo.
Come ci insegnano i poeti, esse acquistano una particolare intensità e forza evocativa quando affiorano dal silenzio e sono il frutto di uno scavo interiore, di una ricerca quanto mai accurata che le carica di significato, bellezza e verità. Inoltre, della rugiada dovrebbero avere la trasparenza, e quella luminosità che può colorarsi di azzurro quando il cielo vi si riflette.
Ecco, le parole, dovrebbero essere sempre pronunciate o scritte con limpida chiarezza, farsi portatrici di luce nell’oscurità che permane nell’anima e nutrire i germogli di umanità che ogni persona ha racchiusi in sé. E proprio con le parole di un grande poeta, Mario Luzi, mi piace chiudere questa riflessione. Evocano, tra le altre, l’immagine della terra che custodisce e protegge la speranza di ritornare all’uso quotidiano di una parola purificata.
Vorrei arrivare al varco
Vorrei arrivare al varco
con pochi essenziali bagagli,
liberato da molti inutili,
inerziali pesi e zavorre
di cui l’epoca tragica e fatua
ci ha sovraccaricato, noi uomini.
E vorrei passare questa
soglia sostenuto da poche,
sostanziali acquisizioni
di scienza e di pensiero
e dalle immagini irrevocabili
per intensità e bellezza
che sono rimaste
come retaggio.
Occorre, credo, una liberazione,
una specie di rogo purificatorio
del vaniloquio
cui ci siamo abbandonati
e del quale ci siamo compiaciuti.
Il bulbo della speranza
che ora è occultato sotto il suolo
ingombro di macerie
non muoia,
in attesa di fiorire
alla prima primavera.