Dopo aver dissertato lo scorso febbraio sulla Statua di Sant’Oronzo, non ci si può oggi, esimere dal rivolgere la nostra attenzione alle altre grandi statue leccesi, partendo da Piazza Libertini. Tra le alte mura del Castello Carlo V e la sede centrale delle poste notiamo un monumento dedicato a una personalità di spicco da cui prende proprio il nome la piazza: Giuseppe Libertini. Chi era costui?
Incuriositi, ci avviciniamo al basamento da cui si erge la statua di un uomo in abiti ottocenteschi e leggiamo la scritta apposta a caratteri cubitali: A GIUSEPPE LIBERTINI IN TEMPI DI SERVAGGIO - TENACE COOPERATORE DI SOMMI MAESTRI- NEL RIVENDICARE LA PATRIA E AFFRANCARE L’UMANA RAGIONE- LECCE RICONOSCENTE. Scopriamo così che Giuseppe Libertini fu un patriota leccese, fondatore delle logge massoniche di Lecce, Brindisi e Taranto. Era iscritto alla “Giovine Italia” e convinto seguace di Giuseppe Mazzini. Prese parte attiva ai moti del ’48 a favore dell’unità d’Italia e dovette successivamente esiliare in Inghilterra per sfuggire al carcere. Gli fu anche utile, a tale scopo, cambiare più volte identità.
Fu poi nominato da Garibaldi reggente del Banco di Napoli, incarico che rifiutò, nella convinzione che il suo ruolo fosse quello di operare dietro le quinte nell’intento di combattere le fazioni opposte al disegno rivoluzionario a favore dell’unità d’Italia. Fu anche eletto deputato, ma anche stavolta preferì dimettersi perché la monarchia era contraria all’annessione di Roma al nuovo stato Italiano. Nominato “delegato del Grande Oriente” per la Terra d’Otranto si occupò della diffusione e del consolidamento delle logge massoniche sul territorio. Trovò la sua ultima pace nel 1874 a lecce.
Poco distante da tutta questa concentrazione della memoria storica immortalata nel marmo, frusciano le foglie della “Phitolacca” di Viale Marconi, foglie che hanno lambito gli anni in cui l’illustre patriota era attivo nella città, mentre di certo testimoni dei suoi trascorsi sono i bastioni del Castello dedicato all’imperatore sui cui territori non tramontava mai il sole.
Poco più avanti ci si trova di fronte ad una fontana sulla cui sommità si trova un’altra statua di sicuro rilievo per il capoluogo salentino. Essa rappresenta due amanti, un uomo e una donna, sorreggono una conchiglia da cui bevono entrambi. L’armonia delle forme ci restituisce un’immagine di vitalità e giovinezza e rimanda al concetto della fluidità dell’essenza vitale, richiamata dalle canne d’organo che sorreggono i due giovani. Una sinfonia, dunque, dell’amore e della vita, della bellezza e della purezza, richiamante la fonte fluviale del Sele, le cui acque convogliate nel Salento, tramite l’Acquedotto Pugliese, offrono ristoro al territorio.
Così, nel 1939, il comune di Lecce indisse un concorso per costruire un monumento che ricordasse questo evento e a vincerlo fu Antonio Mazzotta che realizzò, utilizzando la pietra di Trani, la “Fontana dell’armonia”. Successivamente nacque una diatriba intorno alla nudità delle due statue che si placò anche perché il complesso fu rimosso per poi essere definitivamente restituito alla città. Al suo autore, ormai scomparso, rimanda il gorgoglio d’acqua al cui si ispirò il suo sentimento “dell’armonia”.
Ci si trova a due passi dall‘Anfiteatro di Piazza Sant’Oronzo. Costeggiandolo, proseguiamo fino a “Piazzetta Santa Chiara” per inoltrarci lungo la stradina che porta alla vecchia tipografia, oggi popolata da locali e ristorantini. Qui ci si imbatte così in un altro monumento, particolarmente significativo. Questa volta siamo di fronte a Fanfulla. “Dove ci si ritrova la sera, ragazzi? Ma da Fanfulla, no?” E chi è Fanfulla, oltre ad essere diventato il simbolo del salottino dei leccesi? Anche qui ci accostiamo al monumento per leggerne la targa commemorativa: SONO TITO DA LODI DETTO FANFULLA – UN MAGO DI QUESTE CONTRADE ANTONIO BORTONE MI TRASFORMO’ IN BRONZO- LECCE OSPITALE MI VOLLE QUI MA QUI È OVUNQUE- DIO E L’ITALIA NEL CUORE- AFFILIAMO LA SPADA CONTRO OGNI PREPOTENZA OGNI VILTA’- MCMXXI.
Al secolo la figura leggendaria forse, da documenti ritrovati nella tesoreria di Napoli, rispondeva al nome di Bartolomeo, forse nato nella provincia lombarda di Lodi e non è noto con sicurezza nemmeno il luogo della sua morte né la data. In ogni caso questo soldato di ventura fu votato alle armi e combatté anche in nome del Sacro Impero.
Di certo c’è che Massimo d’Azeglio, nel 1883, lo volle ricordare come l’eroe che affiancò con coraggio, ricoprendosi d’onore, Ettore Ferramosca nella disfida di Barletta del 1503. Ma l’artista, senza dubbio geniale comevenne definito, ce lo presenta come un uomo ormai vecchio e ingobbito dal tempo cieco da un occhio, vestito di saio penitenziale, nell’atto di affilare il suo spadino memore delle antiche focose battaglie di gioventù.
La storia della statua è piuttosto travagliata. Antonio Bortone la realizzò in gesso e l’opera partecipò alla Mostra Internazionale di Parigi dove si aggiudicò, pur con le ammaccature dovute al trasporto e grazie al restauro dello scultore napoletano Vincenzo Gemito, il terzo premio. Finì poi a Firenze da dove venne recuperata, grazie all’intervento del professore Brizio De Santis e di Giuseppe Pellegrino che ne fece dono al museo civico. Fu poi spostata nel “Sedile” di Lecce e da lì partì per Firenze per essere fusa in bronzo. Restituita ai leccesi trovò dapprima collocamento nei pressi di Palazzo Carafa, poi fu spostata nella villa comunale e infine fu riportata in Piazza Raimondello Orsini.
Com’è facile intuire eroi e personaggi immortalati dalla storia, non trovano pace e riparo dalla storia dei vivi nemmeno da morti. Chissà cosa pensa oggi “Fanfulla”, mentre si occupa con amore del suo spadino, fedele testimone di tante battaglie e del sangue versato in nome di grandi ideali, come la libertà e la messa al bando delle ingiustizie, della pacifica umanità, che oggi senza degnarlo di uno sguardo, gli sciama intorno…
Ph. Mauro Ragosta - Tutti i diritti riservati