"E' la stampa bellezza" - di Matteo Gentile

"E' la stampa bellezza" - di Matteo Gentile

      Sfogliano il dizionario Treccani si legge che “deontologia” è un termine filosofico con cui J. Bentham chiamò la sua dottrina utilitaristica dei doveri. Il termine, affiancato dall’aggettivo “professionale”, è poi entrato in uso per indicare “il complesso delle norme di comportamento che disciplinano l’esercizio di una professione”.

       Naturalmente, per ogni professione esiste un insieme di norme che la caratterizza, anche se molte di queste, per forza di cose, sono interscambiabili. Se per un medico si fa riferimento al famoso “giuramento di Ippocrate”, risalente al quinto secolo avanti Cristo, in altre professioni, più recenti, come quella dei giornalisti, per esempio, le norme deontologiche sono evidentemente molto più recenti, anche se spesso ci si chiede quanto vengano effettivamente rispettare, soprattutto nell’era dei social media, e quanto invece possano essere considerate succubi di “leggi bavaglio”, se sembra che limitino in qualche modo la libertà di stampa. Anche se i confini tra libertà e deontologia, a volte, possono sembrare labili.

      In un tempo in cui ogni utente dei mezzi di comunicazione di massa si sente autorizzato a pubblicare notizie, formulare giudizi, criticare od osannare questo o quel personaggio, più o meno pubblico che sia, quanto la deontologia professionale può e deve ancora essere rispettata nel campo specifico dell’informazione? In questi giorni uno dei cosiddetti “trend” (o tendenze, per intenderci meglio) è legato, per esempio, alla nuova legge definita “bavaglio” appena approvata dalla Camera dei Deputati con 160 voti favorevoli e 70 contrari, che introduce il divieto di pubblicazione «integrale o per estratto» del testo dell’ordinanza di custodia cautelare, l’atto con cui il PM ufficializza la sua richiesta di andare a processo.

       L’emendamento Costa introduce «il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva Ue del 2016 sulla presunzione d’innocenza». In altri termini, non è possibile pubblicare il testo delle ordinanze con cui i giudici per le indagini preliminari dispongono il carcere, gli arresti domiciliari o altre misure cautelari nei confronti di indagati che rischiano di reiterare i reati, fuggire o inquinare le prove. Un coro di proteste si è alzato da parte dei giornalisti professionisti di tutte le principali testate, che hanno definito tale legge un “bavaglio” alla libertà di stampa.

       Una legge dello Stato, dunque, che sembra andare in contrasto con l’articolo 2 del codice deontologico nell’esercizio dell’attività giornalistica, il quale recita, testualmente: “In forza dell’art. 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure”. Per ricordarlo, l’articolo costituzionale citato afferma, più in generale che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e aggiunge “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

      Alla luce di queste considerazioni, qual è il confine tra la libertà di comunicazione che dovrebbe essere garantita alla stampa da un lato, e la tutela della dignità dell’indagato dall’altra parte? E c’è una differenza tra le varie tipologie di reato? Se un presunto omicida viene messo in carcere in attesa dello svolgimento delle indagini e dell’eventuale processo – dove poi si scopre che gioca tranquillamente al “mercante in fiera” con gli altri detenuti, ma è un’altra questione – quanto è lecito far conoscere all’opinione pubblica quali siamo le motivazioni addotte dal giudice? E lo stesso vale per reati, diciamo così, minori, che afferiscono per esempio al campo finanziario? Ci si chiede, tra l’altro, se praticare il silenzio mediatico nei confronti dei presunti colpevoli dei femminicidi sia la strada da seguire per limitare il rischio dell’emulazione o della cosiddetta “pornografia del dolore”, ma in tal caso il rischio che si corre è quello di tutelare la presunzione di innocenza a scapito della dignità della vittima. Chi scrive è profondamente indignato quando si va a “scavare” nella vita delle vittime per cercare un eventuale movente, finendo di fatto con il compiere una nuova violenza alla dignità della vittima e delle persone a cui era cara, e lo sarà per sempre. Ma non solo....

      La vittimizzazione secondaria è un atto che definire deprecabile sarebbe un eufemismo, e che cozza profondamente con il concetto di deontologia professionale – almeno a nostro modesto parere -. In tal caso, se è lecito (perché lo dice la legge) tutelare l’indagato, dovrebbe essere altrettanto lecito (in tal caso per obbligo, se non altro, morale) tutelare la vittima, evitando di spiattellare le foto, la sua storia personale, il suo vissuto, solo per qualche click o per qualche lettore in più.

      Certo, si potrà obiettare, citando la famosa frase “è la stampa bellezza, e non ci puoi fare niente”, pronunciata dal grand Humphrey Bogart nel film “L’ultima minaccia”, che più click equivalgono a maggiori introiti, e di conseguenza producono quel danaro che serve per vivere – o sopravvivere -. Ma quanto valgono la dignità e il rispetto per sé stessi e per gli altri? La regola deontologica principale, che dovrebbe valere per ciascun “Anthropos”, per usare il termine greco che indica l’essere umano senza distinguerne tra uomo e donna, è quello del rispetto. Al di là di qualsiasi legge scritta, che pure ha il suo valore per garantire la civile convivenza, dovrebbe prevalere la legge naturale, per cui ognuno ha valore in sé, in quanto appartenente all’Umanità.

Matteo Gentile

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