Vi è mai capitato di sentirvi dire “non devi pensare?” e non mi riferisco al senso bonario con cui qualcuno intende aiutarci a stare meglio, provando a farci distrarre da pensieri spiacevoli, intendo quel modo superficiale in cui si viene apostrofati come una persona “che pensa troppo” e quindi che “si complica la vita” inutilmente. “Cogito ergo sum” ossia “penso dunque sono” di cartesiana memoria non va più di moda e oggi forse non se ne meravigliano più neanche i filologi, intenti oltre che sulle ‘sudate carte’ a gestire il ‘fare’ che procurano gli interventi social.
Il Direttore non me ne vorrà se per un momento mi sono allontanata dal tema da me scelto questo mese, tra quelli da lei proposti, che è, per intenderci, la parola “ascolto”, in quanto a ben vedere l’ascolto è l’alter ego del pensiero e quindi del pensare a cui accennavo prima.
Sfido chiunque ad essere capace di ascoltare qualcuno senza pensare o anche –ripensare- alle sue parole. Ovviamente non mi riferisco all’aspetto funzionale dell’ascolto, per quello basta avere un buon udito, ma alla capacità di far riverberare le parole dentro di sé e quindi di accogliere l’altro e di arricchirsi attraverso il suo racconto, di esserne “toccati”. E quindi? mi direte: “basta rendere conseguenziali i due concetti, la mancanza di tempo per pensare” si traduce nella “mancanza di tempo per ascoltare”.
A volte ho l’impressione che gli individui della società Occidentale siano stati tristemente ridotti in personaggi che hanno modo di esistere soltanto attraverso il fare e l’apparire. L’accorciarsi delle distanze, ci ha dato la possibilità di essere “onnipresenti” basta un “apri e chiudi riunione” per trovarsi in un istante dall’altra parte del mondo. La tecnologia prima e il mondo virtuale poi, hanno reso possibile all’uomo ciò che prima era impensabile ma, nello stesso tempo, hanno condizionato e mutato il suo modo di agire e di pensare. Essere “onnipresenti” ci dona l’illusione di poter fare di più e di poter fare meglio ma ne siamo proprio sicuri?
Riempiamo la nostra vita di “fare” così tanto che non abbiamo più il tempo di pensare, soprattutto perché questo fare non vale in sé stesso, ma deve essere mostrato e approvato. Tale operazione richiede tempo, un tempo che paradossalmente sottraiamo a noi stessi e agli altri a cui pensiamo di rivolgerci. L’ascolto invece non è stato ancora inglobato nella rincorsa spasmodica del fare, forse perché non può essere mostrato? O per meglio dire non dà valore farlo? Ascoltare è quel mondo rimasto un po’ ovattato, forse più intimo e complesso. L’ascolto di se stessi e degli altri costruisce il racconto, come insegnava lo psicologo J. Bruner, che dà senso al nostro ‘fare’ lo strappa allo spasimo “dell’esserci sempre e per forza” e a quello di doverlo ostentare. Perché quando siamo in ascolto ci fermiamo.
Una sera, durante un incontro culturale, l’amico Mauro Ragosta, al tempo direttore editoriale di un noto giornale locale, mi fece prendere atto che uno dei difetti della società Occidentale è senza dubbio il suo essere autoreferenziale, al punto che persino l’autore che scrive, spesso non si preoccupa di chi lo legge. Forse è per questo che il mito di Narciso è uno di quelli dei quali è possibile notare la ricorsività pressoché ininterrotta nella storia della cultura occidentale? Narciso non a caso non era capace di ascoltare ed Eco di farsi ascoltare.
Pamela Serafino