La chimica, l’Arte, la vita e …l'esperimento perfetto (Parte sesta): Il salto quantico dell’artista - di Monia Politi

La chimica, l’Arte, la vita e …l'esperimento perfetto (Parte sesta): Il salto quantico dell’artista - di Monia Politi

        Sono seduta davanti ad un foglio e ho una penna in mano: quel bianco mi abbaglia, mi confonde con la sua purezza. Il pensiero mi rimanda a Van Gogh quando nelle sue lettere al fratello Theo parla di sindrome della tela bianca: ”Mi siedo con una tavola bianca di fronte al luogo che mi colpisce, guardo quel  che mi sta dinanzi, mi dico: «Questa tavola vuota deve diventare qualcosa»– torno insoddisfatto – la metto via e quando mi sono riposato un po’,vado a guardarla con una specie di timore. Allora sono ancora insoddisfatto, perché ho ancora troppo chiara in mente quella scena magnifica per poter essere soddisfatto di quello che ne ho tirato fuori.”

       Da dove proviene questa impotenza di fronte al bianco della tela, del foglio? Recalcati dà una interpretazione di questo sgomento: quella tela, quel foglio bianchi non sono vuoti ma su di essi c’è tutto quello che è stato già scritto e dipinto. E questo spaventa e intimorisce.

      A questo proposito c’è un aneddoto riguardante il noto artista del secolo scorso Emilio Vedova: si racconta che quando i suoi allievi erano paralizzati davanti alla tela egli arrivasse con un secchio pieno di pittura e imbrattasse la tela per innescare così il processo creativo. Il gesto non era semplicemente sciogliere le inibizioni degli allievi, ma significava che la tela non era bianca, su di essa era depositato tutto quello che era stato dipinto fino a quel momento e questo induceva l’allievo a chiedersi cosa potesse dipingere di nuovo rispetto al passato. Quel gesto era un colpo di spugna per annullare tutto quel sapere affollato lì; per rendere possibile la creatività doveva essere prodotto il vuoto su quella tela.

      Dopo queste riflessioni, finalmente comincio anch’ io a sporcare il mio foglio bianco e a scarabocchiare. Non sono una brava disegnatrice, ma questo gesto distoglie il mio pensiero dal fatto che tante cose sono state già scritte da autori il cui nome mi intimorisce, artisti di fronte ai quali “mi sento piccola”. Il disegno casuale mi aiuta a recuperare fiducia in me stessa e mi incoraggia a scrivere una storia nuova, una storia nella quale userò sempre le stesse parole ma esse saranno cariche del mio essere, del significato che nell’atto dello scrivere io darò loro, rendendo il mio racconto, la mia emozione, il mio pensiero unici e irripetibili. Si allenta la tensione dell’inadeguatezza che lascia spazio a quell’entusiasmo che è necessario per dare vita a qualcosa di nuovo.

       E ora vediamo cosa succede all’atto creativo che nasce da quello che io chiamo il “salto quantico dell’artista”, per usare un parallelismo con” il mondo della fisica quantistica”.

       Secondo la teoria di Bohr, gli elettroni contenuti in un atomo sono collocati su ben determinati livelli energetici e, se sollecitati da sorgenti esterne, possono passare a uno stato “quantico” diverso emettendo o assorbendo energia sottoforma di fotoni. Similmente l’artista, sollecitato dal mondo esterno, raggiunge un nuovo stato energetico, una sorta di nuova consapevolezza che lo supporta nell’atto creativo.

       Questa interferenza, quindi, rappresenta l’innesco dell’evoluzione energetica dell’artista, del salto quantico che avviene se e solo se ciò che ci circonda entra in connessione con la nostra parte più intima. A tal proposito ancora Van Gogh scrive: “Ma trovo che nel mio lavoro c’è in fondo un’eco di quello che mi ha colpito. Vedo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha rivolto la parola e che io l’ho trascritta in stenografia. Nella mia stenografia ci sono forse parole che non si possono decifrare, forse ci sono errori o vuoti; ma in essa c’è qualcosa di quanto mi ha detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura”.

       Ed ecco spiegato il salto quantico creativo: l’artista, al pari dell’elettrone, “eccitato” dal mondo esterno, si evolve; egli non copia, ma trasforma, va oltre la forma, cioè riempie di sé, del suo io, del suo bagaglio emotivo e culturale ciò che osserva e anche se i colori sono sempre colori, e le parole sono le stesse: quello che produce è sempre qualcosa di nuovo.

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